Cirillo Covallero
Un volontario italiano nella 4a divisione SS-Polizei
a cura di Massimiliano Afiero
Il mio nome è Covallero Cirillo nato a Torrebelvicino l’11 luglio 1922….Poi è scoppiata la guerra e io sono partito con i volontari della GIL di Padova e siamo andati a Pegli (Genova) in treno. La sigla GIL stà per Gioventù Italiana del Littorio… Due dei miei compagni ritornati a casa sono diventati Comandanti di squadra. Al sabato dovevamo fare il pre-militare. Consisteva nel marciare e cantare vestiti da “Camicie Nere”, ma dopo l’8 settembre 1943 questi sono diventati comandanti dei Partigiani. A vent’anni mi chiamarono sotto le armi: era il dodici settembre 1942 e mi mandarono a Caporetto nel Battaglione Alpini “ Vicenza”…Poi è venuto l’ordine di andare sul fronte Russo. E’ venuto un Colonnello Medico e mi ha fatto idoneo per l’Armir e da Caporetto assieme alla Compagnia mi hanno trasferito a Tolmino a piedi. Camminando mi sono fatto male al tallone e allora ho chiesto visita. In infermeria ho trovato un anziano di nome Ciscato e gli ho chiesto come mai non era andato al fronte Russo e allora lui mi insegnò come dovevo fare. Dovevo marcare visita superiore. E’ venuto a visitarmi lo stesso Colonnello medico, ma prima di entrare per la visita ho preso metà tubetto di pastiglie che mi aveva dato il Ciscato. Così il Colonnello Medico non mi fece idoneo per il fronte Russo e fui mandato a Sant'Andrea di Gorizia dove c’era il deposito del Reggimento “Nono Alpini”. Lì volevano mandarmi in Grecia a presidiare. Allora marcai visita di nuovo e presi le altre pastiglie rimaste e così mi fecero “sedentario” e restai al deposito nella Compagnia Provvisoria….Lì mi sono trovato l’otto di settembre 1943 quando sentii il comunicato della resa. Allora io e tutti quanti gridavamo dalla gioia, ma un Tenente ci calmò dicendoci che la guerra per noi sarebbe incominciata allora. Subito un “Tenentino” mi chiamò con un sergente e una dozzina di soldati e siamo partiti per controllare i posti di blocco della Città. Alla mattina del giorno nove siamo arrivati al posto di blocco di Salcano. C’erano i fortini con delle mitragliatrici pesanti che controllavano chi poteva entrare in Città. In quel momento c’era un gruppo di partigiani, con bandiere rosse e anche molte donne e il Tenentino mi chiamò con il sergente per andare incontro a questi che volevano entrare nella Città di Gorizia…il Tenentino sparò col mitra una raffica in aria e allora si fermarono… poi con il resto della pattuglia siamo andati avanti e disperso tutti…
Arrivato in cima al paese c’era un bivio, una strada portava al Monte Santo e a Selva di Tarnova, l’altra andava a Tolmino. Lì nel bivio c’erano due nostri carri armati e sulla strada che portava a Tolmino a tre chilometri erano fermi i tedeschi e i carristi non avevano nessun ordine preciso e c’era un via vai di partigiani vestiti da militari con la stella rossa sul berretto e salutavano con il pugno chiuso. Era la prima volta che li vedevo. Lì scendevano dalla strada molti soldati sbandati e noi li inquadravamo e li portavamo in contumacia in caserma a Salcano di notte e di giorno, fino alla mattina del giorno undici settembre quando sentii una scarica di cannonate. Pareva fosse incominciata la nostra guerra. Allora io e i miei compagni abbiamo cercato di fuggire, ma il Tenentino col mitra in pugno ci fermò dicendo che ci avrebbe sparato. Intanto i Tedeschi spararono un razzo bianco e di lì a poco passò una gip (jeep, ndr) con un drappo bianco con il Felmaresciallo Romel (Rommel, ndr) e il suo autista. Il maresciallo ci sorrideva. Andavano in Città per trattare con il Comando. Dopo circa un’ora ritornò indietro, molto serio. Poco dopo incominciarono a scendere e fuggire molti soldati, artiglieri da montagna con i cannoni, bersaglieri, arditi. Tutti fuggivano anche i due carrarmati e non si vedevano più neanche i partigiani che volevano le nostre armi. Il Tenentino ci teneva a bada. Disse che se avessimo tentato di fuggire ci avrebbe sparato. Ad un certo punto non si vedeva più nessuno….rientrammo in Caserma a Sant’Andrea. Il Tenentino presentò la pattuglia al Capitano e il Capitano con la mano ha fatto un gesto di stizza e allora ci hanno messo in libertà…
Entrando nella stazione di Mestre mi sono svegliato con questa frase in Italiano con l’altoparlante: “Tutti i soldati che si trovano in questa tradotta resteranno a disposizione del Comando Germanico”. Subito colpi di mitragliatrice per aria e i soldati tedeschi urlando “raus” ci hanno incolonnati verso un campo tutto recintato…era il dodici settembre 1943….Alla mattina ci hanno messi tutti in colonna alla stazione e ci hanno caricati sul treno passeggeri come delle sardine in scatola. Io mi sono trovato nel corridoio di un vagone, in piedi appoggiato al finestrino. Dietro al treno c’era un vagone scoperto con due mitragliatrici e quando il treno partiva dalla stazione sparavano in aria….Abbiamo passato Padova, Vicenza, Verona…ed all’ottavo giorno siamo arrivati alla stazione di Allestan in Prussica orientale (Allenstein, l'attuale città polacca di Olsztyn, in Prussia Orientale, ndr) e sono sceso con tutti i deportati. Formavamo una lunga colonna verso il campo di concentramento, ma prima ci hanno inviati tutti su un posto per disinfettare tutti gli indumenti e fare la doccia.
Il campo era fatto così: c’erano dei capannoni recintati a due a due con del filo spinato e un po’ di cortile: io mi misi subito in un letto a castello e non mi sarei più mosso se non avessi avuto vicino a me un giovane di Pola che mi tirò giù perché c’era da mangiare. Sono uscito e c’erano due pentoloni con dell’acqua dentro, ma non c’era più neanche una buccia di patata. Poi ogni dieci soldati davano un filone di pane e un salame in sessanta: una fetta di pane e una fettina di salame a testa e poi sono andato a sdraiarmi sul letto con la coperta che avevo. Alla mattina tutti fuori nel cortile dove c’erano i tedeschi e uno di loro parlava l’italiano e ci chiese se volevamo andare nelle”esse esse”. C’erano quelli che mormoravano che le “esse esse” erano battaglioni d’assalto e io ho pensato subito se erano così di andare e poter saltare al di là, ma non avevo il coraggio di fare un passo avanti per primo. Il primo c’è stato e allora io fui il secondo, poi via via gli altri. Il mio compagno da Pola è rimasto deluso e noi abbiamo subito cambiato posto. Siamo andati in un altro capannone, in tutto saremmo stati un centinaio e quel giorno ci hanno dato tanto da mangiare e avevo avanzato un pezzo di pane e siccome non riuscivo a dormire ho dovuto mangiarlo tutto….
….Poi è arrivato l’ordine di partire per Missingher (Münsigen ?) e ci hanno dato i viveri per due giorni e io ho mangiato tutto subito….abbiamo impiegati quattro ad arrivare a Missingher. Lì piovigginava e io avevo fame…Dopo siamo andati in una caserma dove c’erano tante stalle senza cavalli e ci hanno messo lì per terra….Dopo venti giorni passati in stalla mi assegnarono una camerata che era riscaldata e i letti avevano le lenzuola bianche… ma è durato poche notti, poi ci fecero adunare tutti fuori nel campo e uno che parlava italiano disse che volevano cinquanta meccanici motoristi e io alzai subito la mano e fui preso subito con altri cinquanta che alzarono la mano e mi hanno dato dieci marchi e i viveri per un giorno e siamo partiti subito per Buchenwald accompagnati dai tedeschi. Naturalmente i viveri li ho mangiati subito e il viaggio è durato due giorni e siamo arrivati a Vaimar (Weimar, ndr) che era buio e piovigginava e a piedi dopo un paio di ore di cammino siamo arrivati al campo di concentramento di Buchenwald. All’entrata c’era una lampada che illuminava una forma di teschio umano e attraversammo tutto il campo; c’erano dei capannoni a piano terra finchè vidi delle caserme alte e in muratura. Arrivati alla mia, subito ci siamo tolti gli indumenti nella stanza per la disinfestazione e doccia….Silenzio alle ventuno e sveglia alle sei del mattino e ti chiamavano per nome. Lì hanno incominciato la visita medica. C’erano degli ambulatori con delle macchine mai viste in Italia. Mi hanno controllato il cuore, i polmoni, se avevo delle malattie veneree e tutto il resto e mi hanno fatto idoneo. Mi ricordo che in una stanza c’era un motore sopra una tavola e il tedesco ci spiegava il funzionamento parlando in tedesco. Io non avevo mai visto un motore e neanche capivo il tedesco. Mi hanno consegnato una tessera con dei bollini, segnato il mese e il giorno per andare a mangiare in mensa, nei piatti e assieme ai tedeschi. Fino al grado di Capitano la mensa era la stessa….era il novembre del 1943.
…a fine di novembre hanno radunato tutti gli italiani fuori nel cortile della caserma e un tedesco che parlava in italiano chiedeva una ventina di meccanici e altri che sapevano fare altri mestieri. Chiesero due fabbri e io alzai la mano e andai avanti; poi chiesero due falegnami e allora io tornai indietro dicendo che facevo il falegname e il soldato tedesco mi disse: “sei fabbro o falegname” e io risposi: “falegname”. Partimmo subito per Berlino…Preso il treno arrivammo in una stazione dove i binari erano sopraelevati. Non ho mai visto una stazione così grande. Scesi dal treno, era ancora chiaro e a piedi ci incamminammo per prendere la metropolitana. C’erano molte case distrutte e apparecchi, fortezze volanti, abbattuti….
Il giorno dopo mi hanno vestito da tedesco e fotografato per il “Solbuc” (Soldbuch, ndr) che era come un passaporto e segnalato tutta la roba data in consegna e così ho incominciato la vita di un militare. Sono stato assegnato alla prima compagnia officina e l’altro falegname alla seconda compagnia e io subito ho incominciato a fare il mio mestiere. Il cuoco della mia compagnia, naturalmente tedesco, mi condusse prima a farmi vedere un camion dove dovevo fare dei lavori perché veniva fatta una cucina mobile e poi mi hanno portato in laboratorio dove c’erano delle macchine per la lavorazione del legno, che non avevo mai visto.
Finito il lavoro, anch’io dovevo fare istruzione, sempre in lingua tedesca. Alla consegna delle maschere antigas ci hanno rinchiusi in una stanza di vetro chiusa ermeticamente e hanno mollato i gas tossici. Ci hanno fatto capire che se le maschere non avessero funzionato avremmo dovuto rompere i vetri e saltar fuori, ma ci è andata bene. Poi un giorno siamo andati in un posto, attraverso la città, a piedi perchè i bombardamenti avevano distrutto la strada, a fare la prova del tipo di sangue che avevamo. Ci hanno levato un pò di sangue dall’orecchio e analizzato. Io ce l’avevo del tipo A e me l’hanno inciso sotto il braccio e scritto nel passaporto. Un giorno siamo andati al poligono per tirare al bersaglio col fucile che in tedesco era chiamato Ghever (Gewehr, ndr) e aveva la mira diversa dal nostro fucile novantuno e abbiamo sbagliato tutto, non riuscivamo a prendere neanche il tabellone che era molto prima di mettersi in posizione….poiché tutti avevamo sbagliato il bersaglio ci diedero per punizione da fare trenta flessioni. Poi abbiamo imparato come si doveva fare e abbiamo fatto centro. Le superfortezze volanti venivano a bombardare Berlino quattro giorni alla settimana, venivano di notte verso le ventitré. Si andava a ripararsi in una galleria che serviva da paraschegge e fra bombe e contraeree andavi via col fiato continuamente. Finito l’allarme io e la mia compagnia si andava a dormire tranne chi era addetto ai soccorsi. Una notte mi è toccato di montare la guardia e ho visto un apparecchio preso col riflettore, era uno spettacolo che non si può dimenticare e veniva bersagliato dalla contraerea. Berlino era grande: trenta chilometri lunga e larga venti. Io in libera uscita ho fatto molta strada a visitare qua e là.
Ma è arrivato il 25 dicembre, giorno di Natale, e noi siamo partiti per la Grecia con un lungo treno pieno di automezzi di ogni sorta e il treno è andato veloce fino a Budapest e lì siamo stati fermi per due ore e intanto si è fatto scuro, poi il treno, piano piano è ripartito e siamo entrati in Yugoslavia e siccome il treno si era fermato, il Capo della mia squadra ci disse di fare la guardia con le parole.”luki luki partigian” e quando il treno si fermava io dovevo scendere a terra e risalire quando partiva. Davanti c’era un treno blindato che continuava avanti e indietro e il mio treno continuava a fermarsi e d io a scendere e salire, perché lì era un posto pericoloso. C’erano molti vagoni che erano stati fatti saltare dai partigiani. E io continuavo giù e su in un vagone dove c’era una vettura con la porta aperta per stare riparato dal freddo e dalla neve perché aveva incominciato a nevicare….Per arrivare a Larissa in Grecia da Budapest ci abbiamo impiegato nove giorni col pericolo che ci facessero saltare in aria come altri convogli. Noi eravamo un centinaio di soldati con una sessantina di automezzi. Di questi cento soldati, tredici erano italiani di tutte le regioni. Arrivati a Larissa ci siamo messi subito al lavoro, nei capannoni abbiamo sistemato l’officina. C’erano tante macchine ferme e le abbiamo fatte funzionare. Si lavorava a petto nudo, erano i primi di gennaio del millenovecentoquarantaquattro….Poi da Larissa siamo stati trasferiti a Tirnavos, un paesino fuori una quindicina di km dalla città di Larissa. C’era una struttura molto grande, prima di entrare in paese, in mezzo , fra il paese e la nostra struttura, c’era un fiume…Quando siamo arrivati c’erano centinaia di automezzi di tutti i tipi e anche motociclette, c’era una Benelli duecentocinquanta….
Noi dovevamo fare un’ora al giorno di istruzioni per la difesa del campo perché se qualche carro armato avesse attraversato la prima linea noi avremmo dovuto fermarlo col Pugno Corrazzato (Panzer Faust), bottiglie molotov e mine magnetiche. Facevamo istruzioni col fucile e fucile mitragliatore e maschera antigas. Con la maschera si lavorava prima mezz’ora al giorno e più avanti anche tre ore. Buttavano i gas lacrimogeni e si doveva cambiare il filtro da soli, mentre le lenti erano pulite da un compagno perché bisognava tenere gli occhi chiusi e con un fazzoletto alla bocca bisognava andare con la faccia più vicino possibile al pavimento. Nella fodera della giacca avevamo garze di ogni grandezza e disinfettante e un telo per il gas liquido con una bottiglietta di liquido in caso di bisogno. Lì era un posto dove regnava la malaria, bisognava prendere delle pastiglie tutti i giorni e non bere acqua, ma solo the che era a disposizione e mi hanno fatto tante punture come non ne avevo mai fatte da altre parti. Alla sera si andava in libera uscita, ma lì in paese non c’era niente di bello. La gente era tutta rinchiusa in casa e le ragazze non si facevano vedere perché i nostri vestiti da tedesco facevano paura….
Ai primi di giugno del quarantaquattro è arrivato l’ordine di andare al fronte francese perchè gli alleati erano sbarcati in Francia e allora io e un altro falegname tedesco siamo andati in paese in un laboratorio di falegnameria che aveva una sega a nastro e abbiamo costruito, con delle palancole, una montagna di cunei per fermare gli automezzi nei vagoni dei treni, ma alla sera contrordine che veniva direttamente da Hitler; non si andava più al fronte francese. Io però mi sono preso una forte febbre e mi hanno ricoverato in infermeria, era una febbre malarica sebbene prendessimo tutti i giorni il chinino antimalarico e si bevesse solo the e caffè e niente acqua. La febbre mi è durata tre giorni e poi sono tornato alla mia compagnia. Oltre il lavoro di addestramento, sempre per la difesa, si facevano uscite inquadrati a passo di marcia e ci facevano cantare, sempre in tedesco naturalmente, attraverso il paese per tenere alto il morale pur sapendo che la guerra era perduta.
Un giorno me la sono vista brutta, stava uscendo un camion dal campo e io col disco ho fatto cenno che venissero fuori alla svelta perché c’era una macchina nella strada che veniva avanti molto forte. Ma il camion è uscito piano piano, e io avrei dovuto fermarlo, ma per fortuna la macchina ce l’ha fatta a passare. Erano Ufficiali tedeschi e mi hanno sgridato, senza fermarsi, ma mettendo la mano sulla pistola. Intanto è venuta l’estate e ci hanno dato la divisa coloniale; eravamo dei magnifici soldati….Poi un giorno degli italiani, d’accordo con i partigiani, hanno piazzato delle mine a tempo nel deposito di munizioni situato nella campagna. Sono fuggiti, ma uno è stato preso e a suon di botte ha detto che alla sera alle ore sei sarebbe incominciato a saltare il deposito, ma le mine erano nascoste e non si sapeva dove fossero, si sapeva solo l’ora dell’esplosione. Io sono andato in paese lo stesso, ma alle sei in punto hanno incominciato a saltare i primi mucchi di munizioni, erano le bombe grosse da aeroplano che facevano tremare le abitazioni. Subito é stato dato l’allarme e tutti con l’elmetto sul capo e i badili siamo saliti sul camion e siamo andati verso il deposito. Ma non si potè fare niente, era troppo pericoloso e siamo dovuti fuggire. Arrivarono molti soldati e circondarono il paese. Era una notte buia e io e un tedesco abbiamo preso posizione di qua del fiume. Il paese era al di là del fiume. Noi ci siamo distesi nell’argine del fiume e il tedesco fece per accendersi la sigaretta con l’accendino facendo due o tre volte perché si accendesse e una raffica di mitragliatrice con pallottole traccianti fu sparata al di là del fiume verso di noi. Io subito volevo rispondere al fuoco, ma il tedesco mi fermò con la mano che tremava come una foglia; io volevo rispondere pur sapendo che erano i tedeschi a sparare. Il deposito di munizioni ci ha messo tre giorni e tre notti a saltare in aria. Dopo é arrivata un’altra compagnia nel nostro campo. Il loro lavoro era di riparare le armi; si sono messi nelle caserme lungo la strada. Le armi erano malconce e io stavo alla larga. Erano tutti tedeschi e vedevo qualche carroarmato e si era dimezzato il campo di guardia: metà pista a loro e metà pista a noi. Una domenica di luglio siamo andati a fare il bagno ai piedi del Monte Olimpo perchè il fiume che passava di lì era asciutto e per noi è andata bene. Poi è andata questa compagnia che riparava le armi e mentre erano in acqua sono sbucati i partigiani e hanno fatto un macello. Trentatre ne mancavano all’appello, fra morti e dispersi…..
Noi eravamo pronti se ci fossero stati degli attacchi dei partigiani. Alla notte un fischio: allarmi partigiani e in cinque minuti eravamo radunati fuori con tutte le armi a disposizione rivolte verso dove si trovavano i partigiani e pattuglie già in movimento. Naturalmente erano istruzioni e subito ritornavi indietro a dormire, ma lo zaino, la maschera antigas e l’elmetto e il fucile erano sempre pronti per la difesa. Poi nel mese di agosto il mio plotone ha seguito i combattenti che andavano a rastrellamento. Avevamo una ventina di automezzi e ci accampavamo sempre fuori dalla città, eravamo una trentina di soldati, tre erano italiani e abbiamo piantato la tenda assieme perché eravamo dotati di un mantello con cui si poteva realizzare una tenda in due, in tre e così via. Eravamo su un posto alberato per non farci vedere dai caccia alleati. Eravamo in due sotto la tenda e mentre stavamo riposando vidi il mio compagno che agitava le gambe e le braccia e rovesciava gli occhi. Chiamai subito soccorso e il mio compagno fu portato all’ospedale; poi mi hanno detto che si era salvato, ma io non l’ho più visto e nella tenda ho visto un piccolo ragno e l’ho ammazzato… Si cambiava posto ogni due, tre giorni con le macchine mimetizzate con rami di ulivo, ma i caccia sbucavano all’improvviso e mitragliavano…Non mi ricordo più i nomi dei posti e delle città dove sono stato, mi ricordo solo la città di Giannina. Ci siamo accampati, come sempre, sette, otto chilometri fuori della città e c’erano poco lontano delle abitazioni e allora si andava in assetto da guerra a perquisire se c’erano partigiani, ma si vedevano solo donne vecchie che lavoravano il tabacco…
Dopo un paio di giorni siamo partiti di notte perché i caccia nemici erano sempre lungo la strada e c’erano molte auto bruciate ai margini della strada e fuori. In ogni posto ci si fermava due o tre giorni e poi si ripartiva e ogni volta sempre lo stesso lavoro. Una volta ci siamo fermati sulle montagne. Le macchine erano ferme distanti una cinquantina di metri una dall’altra. C’erano una ventina di automezzi e la colonna era lunga circa un chilometro. A me è toccata l’ultima macchina e ho dovuto fare la guardia tutta la notte, ma mi son messo una decina di metri lontano e quando sentivo il maresciallo che veniva a controllare, mi avvicinavo e davo l’alt e chiedevo la parola d’ordine e tutto è andato bene. La mattina ci siamo messi in marcia con gli automezzi. Era una bella giornata e davanti ai miei occhi c’era il mare. Siamo scesi dal monte lungo una strada che costeggiava il mare, ma per pochi chilometri e la colonna si fermò perché arrivò l’ordine di spostarsi sul fronte russo: i Carpazzi (Carpazi, ndr) fu la nostra destinazione…
Lì siamo stati fermi un paio di giorni e poi ci siamo fermati un’altra volta vicino alla città di Giannina, una delle poche città che ancora ricordo….Poi siamo rientrati al campo a Tirnavos e abbiamo avuto l’ordine di non scaricare la roba dagli automezzi e abbiamo avuto l’autorizzazione di dormire un’ora in più alla mattina seguente. Alla sera sono andato fuori in libera uscita a Tirnavos; la compagnia era già pronta a partire per il fronte Carpazzi. Alla mattina mi sento chiamare, solo io perché il mio plotone poteva dormire un’ora in più e cioè fino alle ore sette. Il caporale di giornata mi disse di alzarmi e uscire fuori, c’erano alcuni soldati ed un italiano e mi dissero di unirmi a loro e chiamarono il mio nome e anche il nome dell’altro italiano e io avevo preso il suo posto perché noi dovevamo ritornare in Germania e dovevo consegnare la divisa coloniale all’italiano, perché lui l’aveva già depositata. L’italiano si mise a piangere come un bambino, io ero esterrefatto, non sapevo cosa dire; io sarei stato più contento di andare al fronte in quel momento, ma io non potevo far niente, me l’hanno ordinato e partii subito per Larissa. Eravamo in sei, vidi il mio maresciallo, ma ero così contrario di andare in Germania, che non volli salutarlo. Poi mi decisi di salutarlo, il maresciallo Bemmer, brava persona, mi fece tanti auguri abbracciandomi e mi disse che saremmo stati tutti prigionieri. Ma penso ancora adesso di essere stato fortunato a non andare al fronte Russo e che al posto mio è stato mandato un altro italiano. Partito per Larissa, avevo ancora il sacco vuoto della farina e l’ho venduto per un milione di dracme e ho comperato un pacchetto di sigarette da cento e con cento milioni ho preso il treno per Salonicco…
Siamo quindi risaliti di nuovo sul treno nel vagone letto; un bel viaggiare con materassi e lenzuola fino a quando siamo arrivati a Crelievo (Kraljevo, ndr) in Serbia. Vidi delle formazioni di fortezze volanti e mi pareva di vedere i piloti che sorridevano nel vedere il nostro treno, ma per fortuna prima della stazione c’era una galleria e il treno si fermò e si sentì lo scoppio delle bombe che cadevano nella stazione e dintorni. Finito il bombardamento il treno è ritornato indietro fuori dalla galleria e io sono stato di guardia tutta la notte per paura dei partigiani, perché nella stazione non si poteva entrare per i danni fatti dalle bombe. Il giorno dopo, ripristinati i binari, siamo entrati in stazione e ho visto un vagone del treno finito in cima al tetto di una casa e il tetto era ceduto per il peso. Lì abbiamo aspettato un treno che veniva al di là del ponte sul fiume Sava, che era stato colpito e per la strada non si poteva passare. Era il due di settembre del 1944. Alle ore nove il treno arrivò e il nostro treno si avvicinò al ponte. Siamo scesi sulla strada e ci siamo messi in colonna per uno perché più in basso avevano fatto un passaggio con un ponte di barche. Io mi trovavo nell’ultimo vagone letto e dietro c’era un vagone scoperto con una mitragliatrice con quattro canne, una ventimillimetri. Suonò l’allarme e si vide una formazione di fortezze volanti, poi un’altra e poi un’altra ancora che andavano verso la città di Crelievo. Una girò e venne verso di noi, la mitragliatrice incominciò a sparare e io dissi di non rispondere al fuoco, ma non hanno capito e così altri sette apparecchi vennero verso di noi, cioè verso il ponte che avevano distrutto il giorno precedente. C’erano delle buche fatte dalle bombe, grandi e profonde e io mi buttai dentro su una, sentii che si aprivano le bottole, non so come descrivere il mio terrore vedendo venir giù bombe da mille chili l’una e il sibilo faceva terrore, io con la faccia sulla terra chiamavo mamma e poi c’era lo scoppio e lo spostamento dell’aria. Perdevi il fiato ma eri vivo. Poi altre sette fortezze venivano da tutte le direzioni, io cercavo di correre a destra e a sinistra con la faccia insanguinata perché la spingevo per terra chiamando sempre la mamma. Cessato l’allarme accorrevano le autoambulanze con sirene accese, ma per poco, poi subito un altro allarme, altre fortezze volanti venivano verso il ponte, sempre in sette, da tutte le direzioni. Allora io mi sono deciso di correre solo in una direzione, allontanandomi il più possibile dal treno e dal ponte. Ma facevo poca strada e sentivo le bombe sganciate e la musica era sempre quella con la faccia sporca di terra e di sangue perché cercavo di ripararmi dalle schegge e poi continuavo a correre verso il monte, ma all’improvviso mi sono trovato davanti dei soldati vestiti di nero, uno aveva una gamba staccata e tutta insanguinata, erano armati e con la barba. Io presi paura e ritornai indietro credendo fossero partigiani, ma erano serbi alleati dei tedeschi. Finalmente i bombardieri se ne andarono e io avevo perso tutta la mia roba. Per il vestiario non c’era problema perché i morti non potevano prendere la loro roba, ma avevo perso anche i documenti e la tessera con i bollini che servivano ai posti di ristoro per prendere i viveri e il rancio giornaliero. Io ho incominciato a prendere la roba dei morti e a portarla al di là del fiume dove c’era l’altro treno venuto da Belgrado. Sono passato sul ponte distrutto dalle bombe, passando su delle potrelle di ferro che emergevano dall’acqua del fiume, dove avevano messo anche delle tavole. Io passavo di qua e di là, da solo , perché non ci si poteva incrociare, gli altri andavano per il ponte di barche. Ad un tratto, finchè mi trovavo in mezzo al ponte, passò a bassa quota un ricognitore alleato per fotografare il ponte e in mezzo al ponte c’ero io vestito da tedesco. Non mi sono mosso; anche questa volta sono stato fortunato. Ci sono stati duecento morti in quel treno…..
Finito il lavoro abbiamo dovuto aspettare un’altra locomotiva del treno perché quella nostra era danneggiata, ma tutto ad un tratto arrivò una decina di caccia alleati e spararono sul treno. Lì c’era una mitragliatrice con quattro canne e che rispose al fuoco dei caccia che continuavano a girare intorno. Dopo il primo passaggio mi sono allontanato dal treno e mi sono messo per terra dietro un tronco e dall’altra parte c’era un civile e allora c’era doppio pericolo perché avrebbe potuto essere un partigiano e avrebbe potuto pugnalarmi. Dopo alcuni giri, gli apparecchi se ne sono andati e lì ho visto la distruzione che hanno fatto le bombe: c’era una vecchietta che piangeva, avevano distrutto la sua casa e il bestiame, tutto quello che aveva, sebbene la casa fosse lontana dal ponte. Gli alleati, criminali di guerra, bombardavano a tappeto. Arrivata la locomotiva sono rientrato nel treno; era la sera del 2 settembre del 1944, un giorno che non potrò mai dimenticare. Partiti da lì siamo arrivati a Vienna, una bellissima città, ma ero senza soldi e senza documenti con la divisa da “esse esse polizai” (SS-Polizei, ndr). Potevo entrare ovunque in tram, in prima classe. Sono stato lì due giorni…..
Partiti da lì siamo arrivati a Vienna, una bellissima città, ma ero senza soldi e senza documenti con la divisa da “esse esse polizai” (SS-Polizei, ndr). Potevo entrare ovunque in tram, in prima classe. Sono stato lì due giorni…..c’erano molti ufficiali di tutte le armi e li salutavo e loro contraccambiavano il saluto. Ho incontrato anche un soldato vestito di nero che portava nel petto la croce di ferro (che era un’alta onorificenza dei combattenti) e io non ho fatto il saluto e questi mi ha rimproverato in modo minaccioso, ma in questi casi facevo capire che ero italiano e non conoscevo il tedesco. Poi sono partito per Buchenwald. Lì c’erano ancora dei fuochi accesi fatti dai bombardamenti delle fortezze volanti alleate e subito prima di entrare in camera abbiamo fatto la doccia e messo tutti i vestiti e la roba in una stanza a disinfettare il tutto con i gas. Era il cinque di settembre del 1944 e ho visto la differenza da quando sono partito da lì a fine novembre del 1943 .C’erano rovine dappertutto, le caserme e i capannoni del campo di concentramento erano stati distrutti e ho saputo della morte della Principessa Mafalda; non so quanti morti ci sono stati. So che suonava spesso l’allarme perché la direzione dei bombardieri era verso la nostra parte. Tutti i prigionieri venivano inquadrati, con una guardia ogni 100 prigionieri e si fuggiva tutti in basso dove c’erano i pini ed era terrificante vedere le formazioni di fortezze volanti in pieno giorno. Erano migliaia e passavano parecchie volte e si fuggiva sempre dal campo di concentramento, compresi i prigionieri…..Poi mi mandarono in Italia con altri 20 soldati, destinazione Pinerolo. Salito sul treno a Weimar, carico di carri armati. Arrivati a Monaco di Baviera suonò l’allarme e alla stazione furono emessi i fumogeni…A Pinerolo c’erano reparti di “esse esse” italiani comandati da ufficiali tedeschi e da lì mi mandarono, con altri cinquanta soldati, ad Alzate di Brianza in provincia di Como. Noi eravamo accampati in un capannone e il nostro compito era di preparare il posto pulito in una villa, con un parco tutto recintato, che doveva servire per i comandanti tedeschi e noi dovevamo fare la guardia. Io ero sempre con la mia divisa da tedesco….Lì ho passato un paio di mesi, diciamo bene. I paesani ci parlavano, partigiani non ce n’erano e anche lì avevo un’amica e mi ero comperato una stoffa per farmi un vestito da borghese. Anche qui finì, perché uno mi disse che potevamo scappare in Svizzera. Lui faceva il contrabbandiere e sapeva come fare a fuggire. Eravamo in quattro; decisi di farlo e lui ad un certo punto ci disse di aspettare e con lui un altro è andato avanti e non li abbiamo più visti. Allora io e il mio compagno che era napoletano siamo andati a rifugiarci dalla “Decima Mas” dicendo che eravamo italiani e che non volevamo stare con i tedeschi. L’Ufficiale ci disse che non aveva nessuna autorità nei confronti dei tedeschi. A questo punto noi dovevamo anche sparare per non farci prendere dai tedeschi e dovevamo andare a Casasco dove c’era il comando della “Decima Mas”. Il vestito me lo cambiai là. Comunque quando sono arrivato con il mio compagno, subito uno mi è venuto incontro, io ero vestito da tedesco e questi mi faceva delle domande e io subito ho capito che quello in realtà era una donna. Un’altra donna era andata a interrogare il mio compagno. Insomma eravamo capitati nel Battaglione N.P. nuotatori paracadutisti della Decima flottiglia Mas e mi hanno dato una uniforme e tutto l’equipaggiamento, con coperte e materasso. Lì (a Casasco, ndr) c’era solo il plotone Comando, il resto era andato a Valdobbiadene (Treviso)….dopo un breve soggiorno a Casasco….siamo partiti anche noi per Valdobbiadene. Siamo saliti tutti in corriera, ma la corriera aveva dei problemi e siamo arrivati in centro a Milano a mezzanotte con l’oscuramento e ci siamo fermati dove c’era una officina della Decima Mas. Ho visto con i fari della corriera uno saltar fuori dalla finestra dell’officina e salire in bicicletta e fuggire a sinistra dell’incrocio. Un parà, che era vicino alla porta, è sceso e gli ha sparato una scarica di mitra, ma l’uomo è riuscito a fuggire. Naturalmente avevamo paura che avesse messo qualche bomba. Io mi sono messo di guardia nella direzione diritta all’incrocio…Poi, riparata la corriera, siamo ripartiti. Arrivati a Vicenza suonò l’allarme aereo. La corriera si fermò e allora io mi portai sulla strada che andava a Schio. Volevo vedere i miei genitori e i miei fratelli e il mio paese Torrebelvicino, ma le autovetture che passavano erano rare e tutte andavano a Thiene, a metà strada per Schio, ma salii lo stesso su una macchina fino a Thiene e poi a piedi mi incamminai, lungo la ferrovia fino a Schio. Dietro di me c’era uno che parlava male dei “fascisti” e io che ero vestito da soldato della Decima Mas continuavo a girarmi per paura che mi desse qualche pugnalata… Arrivato a casa dei miei genitori, li salutai e salutai anche i fratelli e poi mi rimisi in viaggio per ritornare. Un maresciallo delle brigate nere mi portò fino a Vicenza e mi lasciò sulla strada che portava a Treviso e ci salutammo; era di pomeriggio e anche lì passava qualche rara macchina e tutti mi dicevano che andavano un poco più in là perché il ponte era distrutto. Io non gli credetti e gli imposi di portarmi fino al ponte e lo attraversai a piedi e di là trovai dei contadini con un carro trainato a buoi e salii e mi portarono fino a Cittadella. Era venuto buio, allora andai al cinema poi andai a dormire dalle Brigate Nere per sicurezza della mia persona e mi hanno anche dato da mangiare e da bere. Alla mattina mi sono messo sulla strada per Treviso. Arrivato a Treviso mi sono incamminato verso Valdobbiadene. E’ passato un camion e io l’ho fermato e li c’erano anche dei civili, ma il camionista non voleva farli salire e allora io gli ho imposto di farli salire. Allora il camion fu completo e arrivammo a Valdobbiadene. Mi presentai al Comandante Capitano di Corvetta Buttassoni (Nino Buttazzoni, ndr) e raccontai che ero andato a casa. Nessuna punizione e voleva anche promuovermi “Sottocapo”. Ma io rifiutai e fui mandato a Vidor nella seconda compagnia chiamata “dei leoni” e lì incominciai l’istruzione per fare i lanci col paracadute. Ma noi eravamo nuotatori paracadutisti e si dovevano fare i lanci in acqua. Ma siccome era freddo non ho mai fatto lanci, ma portavo il distintivo da paracadutista. Tre paracadutisti mi chiesero quanti lanci avevo fatto con un tono molto aggressivo. Io gli risposi : “nessuno”. Allora mi dissero: "come mai porti il distintivo?, dove sei stato ? perché ci vogliono almeno tre lanci per poter portarlo". Io gli risposi che ero stato in Grecia nelle “esse esse” divisione “Polizai corrazzata”. Si sono stupiti e mi hanno detto che potevo portarlo e siamo andati al bar a bere e raccontai a loro della mia permanenza nelle “esse esse”.
Il 1945 è stato molto movimentato fino a maggio. Non ricordo bene né le date e neanche il nome dei paesi . Come quello dove siamo arrivati alla mattina presto. Tutto il Battaglione e io siamo restati in paese e il campanaro si mise a suonare le campane. Naturalmente era un segnale per i partigiani che erano a dormire in stalla e si è sentito sparare e i partigiani sono scappati su per la montagna. La pattuglia dei paracadutisti è tornata in paese con delle mucche e delle capre. Allora il tenente della mia compagnia mi disse di prendere il fucile mitragliatore. Con una pattuglia siamo partiti per andare su per la montagna. C’era la neve per terra. Si saliva per un sentiero e ad un certo punto siamo stati presi a fucilate e allora il tenente divise la pattuglia. Metà doveva continuare sul sentiero e metà si doveva arrampicare subito su per il monte. Con la neve e fuori sentiero si faceva fatica a salire e ad un certo punto sento chiamare: "Decima" e io rispondo: "Decima" e mi sparano una raffica di parabello. Ho sentito le pallottole fischiare nelle orecchie e loro continuavano a chiamare: "Decima" e anche il porta munizioni rispose: "Decima" e un’altra raffica di parabello fischiò nelle orecchie. Allora io cercai di piazzare il fucile mitragliatore per sparare. Il tenente mi disse di non sparare, ma sapevo che il fucile mitragliatore quando salendo ero scivolato, si era riempito di neve e non avrebbe potuto sparare. Infatti dopo tre colpi si é inceppato. Allora io che avevo pratica di come farlo funzionare, mi sono levato il basco e ho asciugato con il fazzoletto un pezzo alla volta. Asciugati tutti i pezzi li ho rimontati. L’altra metà della pattuglia gridava: "…noi scappiamo!!! Sono in tanti". Nessuno di noi parlava allora io dissi: "…apro il fuoco e voi uno alla volta cercate di fuggire!" e così si è fatto. Il fucile mitragliatore ha incominciato a cantare, sparavo alla cieca perché non vedevo nessuno e poi dopo l’ultima raffica mi sono lasciato scivolare sul sentiero dove si poteva correre. Questa azione mi ha portato bene in seguito perché la Decima non era per combattere contro i partigiani. Quando è arrivato l’ordine di andare a Selva di Tarnova il comandante Buttassoni ha chiamato a rapporto tutti i comandanti del battaglione N.P. Uno si è opposto dicendo che noi eravamo fatti solo per andare al fronte e allora il Comandante Buttassoni gli disse di tacere altrimenti gli avrebbe sparato, ma lui continuava a parlare e allora il comandante gli sparò in faccia. Io ero a Vidor quando è arrivata questa notizia di andare a Selva di Tarnova e che il comandante Buttassoni aveva ammazzato uno. Sono stati processati e così anche il mio comandante della seconda compagnia non è venuto a Selva di Tarnova e il comando lo ha preso il Tenente con il quale eravamo sul monte alle prese con i partigiani….
Arrivati a Selva di Tarnova la mia compagnia, al comando del tenente con il quale avevamo fatto prima una fuga di fronte ai partigiani, è stata alloggiata nelle scuole. Subito abbiamo fatto una ricognizione per i boschi intorno al paese. Poi alla sera ci hanno radunati tutti su una stanza e ci hanno comunicato che all’indomani bisognava consegnare tutta la roba e tenere solo l’indispensabile perché bisognava andare su per la montagna dove c’erano i partigiani e bisognava in due andare giù a Gorizia a custodire la roba. Allora tanti soldati dicevano: "Signor tenente vado io, Signor tenente vado io". Lì c’era un corridoio e due sottocapi parlavano fra di loro e il tenente gridò: "…tacete voialtri là fuori". Loro chiusero la porta e continuarono a parlare. Io ero seduto sul pavimento e i compagni continuavano: "Signor Tenente vado io" e lui gridò: "..mando quelli che dico io" e chiamò: "Covallero". Io risposi col sistema tedesco, con un sorriso. E lui mi disse: "…sorridi anche mentre i tuoi compagni vanno a combattere". Io gli risposi che non lo avevo chiesto io. E lui mi ripetè. "Vai giù". Assieme venne anche uno della Sardegna. Fuori dal corridoio i due continuavano a parlare e allora il tenente estrasse la pistola e sparò un colpo. La porta si aprì e uno cadde sul pavimento e uno si mise la mano sulla nuca dove usciva del sangue. Li portarono subito all’ospedale di Gorizia. Si sono salvati tutti e due: é stata una pallottola intelligente. La mattina del giorno dopo, con tutto il materiale del battaglione N.P., siamo andati giù a Sant'Andrea di Gorizia nella caserma dove ero col nono reggimento alpini, stessa camerata, priva di letti. Abbiamo scaricato la roba e io e il mio compagno l’abbiamo messa in un angolo della camerata quella della prima compagnia , in un altro angolo quella della seconda e in un altro angolo ancora quella della terza. Eravamo in sei con il mutilato della decima, tenente Remo Venturi, il quale disse che sarebbero bastati due a fare la guardia e che non dovevamo rubare niente fra di noi.
….il giorno dopo siamo andati a Selva di Tarnova col camion a portare un pasto caldo e viveri al nostro Battaglione che aveva liberato un altro battaglione della Decima Mas, mezzo distrutto dai partigiani di Tito. Ma non voglio raccontare quello che ho visto. I miei compagni mi dissero che la strada di montagna era stretta e su una curva c’era una mina segnalata e scoperta e io sono sceso a segnalarla al conducente del camion, indicando se poteva passare. Per fortuna ce l’ha fatta a passare piano piano, ma penso ancora adesso se non ce l’avessimo fatta non sarei qui a scrivere. Arrivati sul posto, l’autista del camion ci disse che dovevamo ritornare subito indietro a piedi. Io e il mio compagno sardo avevamo paura e allora ogni tanto buttavamo una bomba a mano di quelle rumorose. Passato il paesino continuavamo a buttare qualche bomba finchè abbiamo visto un posto di blocco tedesco che ci guardava col cannocchiale.
…Qualche giorno giorno dopo è venuto l’ordine di tornare noi a Vidor e il resto del battaglione a Valdobbiadene. Con il camion e rimorchio siamo partiti in cinque in cabina e si vedeva bene la strada sebbene incominciasse a diventare buio. Dovevamo essere per le venti a Canale, un Paese lungo il fiume Isonzo. Abbiamo passato un posto di blocco tedesco, ma non ci dissero che più avanti il ponte era distrutto e bisognava girare piano a destra. La strada era bella larga, asfaltata lungo il fiume Isonzo e l’autista che si chiamava Maffettone era bravo ma spericolato e gli hanno anche dedicato una canzone. Era diventato buio e anche con i fanali accesi non si vedeva più la strada e si viaggiava abbastanza veloci. L’autista fece una frenata facendo testa coda, noi fummo sbattuti di qua e di là nella cabina. Il rimorchio con le ruote e le ruote posteriori del camion si sono fermate in fondo al ruscello. Noi eravamo tutti ammaccati, ma illesi. Il camion non riusciva a risalire la china e allora due compagni sono andati verso il posto di blocco tedesco per chiamare soccorso, mentre io mi sono spostato al di là del ponte per fare la guardia. Era diventato buio pesto e il tempo non passava mai, non si vedevano ritornare quelli che erano andati a chiedere soccorso ai tedeschi. Erano passate un paio d’ore e non si vedeva nessuno e non si sentiva niente. Silenzio assoluto. A un certo punto sento dei passi venire avanti; gli do il chi va là? E mi sento rispondere "Decima" e io gli risposi: "Decima alto là". Riconosciuti con la parola NP, era l’avanguardia del battaglione che vedendo che non eravamo giunti per le venti erano partiti a piedi e subito dopo sono arrivati anche quelli che erano andati a chiamare soccorso dai tedeschi. Con un altro camion e la forza delle braccia del battaglione siamo riusciti a tirar fuori il camion e anche il rimorchio. Rimesso in strada l’autocarro siamo saliti tutti e ritornati a Vidor e Valdobbiadene. Voglio ricordare che io e i miei compagni facevamo addestramento per fare un lancio in acqua, ma era freddo….Quei quattro mesi passati nella Decima Mas sono stati molto movimentati….
Estratto dalla testimonianza "in maniche di camicia", 4 marzo 2003. Per avere una copia completa della testimonianza, basta inviare una email al signor Giorgio Prandina: giorgio@witcom.com